C’è una tipologia di donna non troppo comune ma nemmeno troppo rara: è una tizia intelligente che pubblica su Facebook cose colte, che sa scrivere e pensare, che commenta di suo pugno con estrema proprietà di linguaggio e profondità interiore, ma che contemporaneamente condisce il tutto con continue foto di se stessa, delle sue belle labbra all’infuori e delle sue lunghe gambe più o meno nude o accavallate.
Ne conosco sette-otto di queste signore, su Facebook.
Non sono tante, ma nemmeno poche, soprattutto perché sono tutte identiche, sovrapponibili.
E questa uguaglianza mi lascia basito.
Spesso fotografano le bottiglie di vino pregiato che hanno bevuto, calici semivuoti col rossetto sul bordo, a volte a corredo ci inquadrano anche una loro scarpa firmata, o un profumo di uno stilista, a sottintendere che conducono una vita agiata.
Parlano di Diritti Umani, di migranti e di lotta alla povertà, ma contestualmente da ogni loro foto traspare un parquet particolare, un sandaletto da 200 euro, un piatto di gamberoni imperiali e caviale: “oggi è andata così”, scrivono, semplici, credendosi originali e garbate nello sbattere in faccia agli altri il loro “io sono io e voi non siete un cazzo”.
Veramente scrivono bene e sono pure realmente belle, davvero, ma su ognuna di loro vedo la mano di un chirurgo: io sono disegnatore, se c’è una cosa che conosco alla perfezione sono i volti, il bluff non mi sfugge, anche quando è lieve.
Ma lieve non è mai, la cosa è concettuale prima ancora che fisica.
Insomma, sono tutte quante rifatte, tutte negli stessi punti, con la distanza tra labbro superiore e naso troppo liscia, troppo lunga, troppo “a scivolo”.
E sono anche tutte realmente intelligenti, ormai intellettualmente mature, colte; leggerle è un piacere, o meglio lo sarebbe se le foto non certificassero altro, costantemente, ripetitivamente altro.
Hanno tutte tra i cinquanta e i sessanta, fingono tutte di avere 15 anni di meno. Ci tengono tanto, e non è solo vanità: intuisco che per tutta la vita la loro bellezza è stata strumento, e vorrebbero lo fosse ancora.
E ancora, sempre in posa, con le mani che agitano i capelli e li mettono sul volto coprendolo in parte, vedo-non vedo, e i pantaloni aderenti spesso strappati come un vero ricco della fine degli anni ottanta, dimenticando che anche questo anacronismo vintage certifica l’età che avanza, quasi più d’una ruga intorno all’occhio o sotto al naso.
Tutto questo mi dispiace. Perché sull’altro binario, in antitesi e contraddizione, il loro intelletto è formidabile, la loro cultura è reale, il loro scrivere è vibrante, piacevole, la loro sensibilità è tangibile.
Forse è quella stessa sensibilità che sul piano personale le rende insicure, bisognose di certificarsi attraverso l’unico cliché che per anni le ha accompagnate e rassicurate.
Ma quel cliché – tanto per usare i loro stessi parametri – è in realtà vuoto come una mammella senza silicone, spento come uno sguardo senza mascara, falso come un profumo di Versace comprato a una bancarella.
Non riesco a comprendere come sia possibile questo dualismo.
Ma esiste, è abbastanza comune, mi lascia sbigottito.
È l’eco lontana dell’arte di apparire degli anni ’80, della Milano da bere, dell’amico onorevole che le ha mantenute, del medico di grido che le ha sposate, del magistrato rispettato che le ha rese amanti, mogli o vice-mogli.
È l’eco delle feste esclusive a cui erano invitate per via di gambe sode e sorrisi giovani e ammiccanti, trofei da mostrare, in un linguaggio all’epoca comodo ed oggi unico riferimento individuale.
Basta, vi prego.
Quello che mostrano non serve, se non a ridicolizzare un contenuto che sarebbe ottimo.
Oggi più di ieri queste signore hanno un cervello non indifferente, una sensibilità notevole, un’affabulazione piacevolissima.
Imparassero a viverla senza inquinarla con selfie da sedicenni e spocchia da arricchite senza nobiltà (che poi sarebbe “sine nobilitate”, la cui contrazione è “snob”).
A leggere quel che scrivono c’è davvero un tesoro nascosto dietro a quelle labbra protese verso la fotocamera da letto.
Che “letto” è anche il participio passato del verbo leggere, si sappia.
E quello mi piacerebbe di loro.
Qualora la spocchia e il botulino permettessero di godere della lettura delle loro belle menti, più che dei loro evidenti bisogni.
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Andrea Cascioli.
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